Massimo Garavaglia, Mario Mantovani e Giacomo Di Capua. A Milano il calvario degli assolti

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Persone ingiustamente accusate e dopo sette anni assolte «perché il fatto non sussite».

Confermata l’assoluzione nel processo d’appello per il ministro del turismo ed esponente della Lega Massimo Garavaglia, già assolto in primo grado nel 2019. Il leghista era imputato per turbativa d’asta su una gara per il servizio di trasporto di persone dializzate del 2014, quando era assessore lombardo all’economia.

I giudici della corte d’appello di Milano hanno assolto anche l’ex vicepresidente di Regione Lombardia, Mario Mantovani, che in primo grado era stato invece condannato a cinque anni e mezzo per corruzione, concussione e turbativa d’asta.
Mantovani, ex numero due del Pirellone ed ex assessore alla Sanità, è stato difeso dal legale Roberto Lassini. Assolto, tra gli altri, anche il contabile Antonio Pisano, difeso dall’avvocato Davide Steccanella. Per il ministro Garavaglia, anche ex viceministro all’Economia, il pg Massimo Gaballo aveva chiesto una condanna a un anno e 6 mesi.
«Sette anni sono molto lunghi, ma sono convinto che alla fine alla cattiva giustizia si è contrapposta la buona di oggi». Così, visibilmente emozionato, dopo aver abbracciato il suo legale Lassini e i collaboratori, Mario Mantovani, ha commentato a caldo il verdetto della Corte d’Appello di Milano.

Tra Garavaglia, Mantovani e gli altri dodici assolti, figura anche Giacomo Di Capua. Quaranta anni, oggi brillante manager, era stato condannato a 4 anni e 4 mesi.
Ne ha meno di venticinque quando inizia a lavorare con Mario Mantovani. «Ad appena ventotto anni ero già dirigente al ministero. Poi, quando il senatore viene scelto come Assessore alla Sanità in Regione Lombardia, divento il suo capo segreteria. Svolgo attività istituzionale sino al 13 ottobre del 2015 quando sei finanzieri entrano alle sei del mattino nel mio bilocale, ben trentadue metri quadri dove eravamo accampati la mia compagna, mia figlia di due anni, mio figlio di venti giorni e io. Stavamo cercando casa: quella che non sono riuscito a comprare. E sa perché? I soldi sono serviti per la difesa processuale».

Di Capua viene portato a San Vittore, dove trascorre una ventina di giorni. La sua difesa processuale, racconta, ha puntato tutto sulla verità: «Ho detto al Pm – quello che insisteva ad attribuire responsabilità a Tizio e a Caio – che sarei voluto andare a casa al più presto, che mio padre mi aveva insegnato a dire la verità e che non sarei stato disposto ad infamare nessuno». Giacomo Di Capua esce da San Vittore dopo ventuno giorni e trascorre sei mesi ai domiciliari. Sin dal principio, avendo letto tutte le carte mentre si trova in carcere, è certo di poter dimostrare la sua totale innocenza. E così, in fin dei conti, sarà.
«Abbiamo cercato di essere lucidi, affrontando un processo di primo grado durissimo, al termine del quale sono stato assolto per due capi d’imputazione su quattro». Poi arriva l’ altra assoluzione: quella di queste ore, che per Di Capua corrisponde «al primo giorno di primavera» dopo sei anni e più di calvario. Il primo pensiero? «Ho ritrovato fiducia nella Carta Costituzionale. Ho pensato che i padri costituenti hanno fatto bene a prevedere più gradi di giudizio. E poi ho visto la bandiera italiana: ho sempre sperato di fare il dirigente pubblico nella mia vita. E quell’arresto mi aveva fatto perdere molta fiducia nel mio paese».